«Dobbiamo liberare l’uomo dal cosmo creato dal genio dei fisici e degli astronomi, da quel cosmo nel quale egli è racchiuso dall’epoca del Rinascimento. Nonostante la sua bellezza e la sua grandezza, il mondo della materia inerte è troppo angusto per lui. Proprio come il nostro ambiente economico e sociale, esso non è fatto a nostra misura. Noi non possiamo aderire al dogma della sua realtà esclusiva. Sappiamo di non essere interamente confinati in esso, che noi ci estendiamo ad altre dimensioni, diverse da quelle del mondo fisico … Lo spirito dell’uomo si estende, al di là dello spazio e del tempo, in un altro mondo. E di questo mondo, che è lui stesso, può, se vuole, percorrere i cieli infiniti. Il cielo della Bellezza, che contemplano i filosofi, gli artisti, i poeti. Il cielo dell’Amore, ispiratore del sacrificio, dell’eroismo, della rinuncia. Il cielo della Grazia, suprema ricompensa di coloro che hanno cercato, con passione, il principio di tutte le cose … Dobbiamo svegliarci e metterci in cammino. Liberarci dalla cieca tecnologia. Realizzare, nella loro complessità e nella loro ricchezza, tutte le nostre potenzialità».
(Alexis Carrel)
«Essere o non essere; tale è il problema.
E’ più decoroso, per l’anima, tollerare i colpi dell’ingiusta fortuna o impugnare le armi contro un mare di dolori e, affrontandoli, finirli?
Morire, dormire, null’altro; e dire che con quel sonno poniamo termine alle angosce del cuore e ai mille affanni naturali di cui è erede la carne, … è una conclusione da essere avidamente desiderata.
Morire, … dormire, … dormire! Forse sognare …; ah, ecco il punto; perché quali sogni possono sopravvenire in quel sonno di morte, quando abbiamo reciso il filo di questo mondo?
Ecco quello che ci trattiene, ed è ciò che rende così lunga la sventura di vivere: perché chi vorrebbe, altrimenti, sopportare i flagelli del tempo, gli oltraggi degli oppressori, le contumelie dei superbi, le angosce dell’amore disprezzato, le cabale della legge, l’insolenza dei governanti e i vilipendi che il merito paziente soffre dall’abbietta ignoranza, quando un ferro gli basterebbe per dargli quiete?
Chi vorrebbe sopportare questi fardelli, e gemere, e affannarsi, trascinando un’inferma vita, se non fosse il timore di qualche cosa, al di là della tomba, di quel paese ignoto, da cui nessun viaggiatore ritorna, che turba la volontà e fa preferirci i mali che abbiamo, piuttosto che affrontarne altri che ci sono sconosciuti?
Così la coscienza ci rende tutti codardi e il colore ingenito della risoluzione rimane offuscato dalla pallida ombra del pensiero; così le imprese di maggior polso e momento si sviano dal loro corso naturale e perdono il nome di azioni».
(Amleto – Shakespeare)
«Dio ci ha creati il meno possibile. La libertà, questo potere di essere causa, questa facoltà del merito, vuole che l’uomo si rifaccia da sé.
Ogni uomo è libero di andare o di non andare affatto su quel terribile promontorio del pensiero donde si vedono le tenebre. Se non ci va affatto egli resta nella vita comune, nella coscienza comune, nella virtù comune, nella fede comune, nel dubbio comune, ed è bene. Per la pace interiore, evidentemente è meglio. Se va su quella cima, è preso. Le profonde onde del prodigio gli sono apparse. Nessuno guarda impunemente quell’oceano … Egli si ostina a quell’abisso che attira, in quel sondaggio dell’inesplorato, in quella noncuranza della terra e della vita, in quell’entrare nel proibito, in quello sforzo per toccare l’impalpapile, in quello sguardo sull’invisibile. Ci rivà, vi ritorna, vi si affaccia, vi si sporge, fa un passo, poi due, ed è così che si penetra nell’impenetrabile, ed è così che si va nell’allargarsi senza limiti della condizione infinita».
(Victor Hugo)
«Persino sulla terra i corpi che si muovono meglio sono i meno solidi e in ciò vi è qualcosa che scende dall’alto, poiché il Fuoco è qualcosa che sfugge già alla natura dei corpi.
Ritengo, dunque, che gli esseri che sono più signori di se stessi fanno meno ostacolo, mentre i più pesanti e terrestri, per il loro essere cadenti, incapaci di muoversi da se stessi, precipitano naturalmente a causa della loro mancanza di forza; e, per il fatto stesso della loro caduta e della loro incapacità di tenersi, cadono sugli altri. Poiché i corpi morti sono i più atti a cadere e, cadendo, schiacciano e feriscono mentre quelli che sono animati, partecipando all’essere (che è esser attivi) e finché l’essere è in essi, non incombono su ciò che è loro vicino.
Le cose meno materiali, se voi le dividete, tornano da se stesse all’unità se nulla fa loro ostacolo: ma tutto ciò che è solido, se lo dividete, resta diviso.
Noi diciamo questo per coloro che vedono nei corpi i soli esseri reali nella testimonianza degli urti che ne ricevono e fondano la loro credenza nella verità sui fantasmi prodotti in noi dai sensi. Essi fanno il paio con la gente che si fa giocare dai propri sogni, benché siano svegli quando hanno queste visioni irreali; poiché queste visioni dell’anima sensoriale sono visioni dell’anima addormentata. Tutto ciò che dell’anima è nel corpo, dorme; uscir dal corpo è il risveglio vero: uscir dal corpo è risuscitare».
(Enneadi – Plotino)
Efaisto chiede agli amanti:
«Non è forse questo che voi bramate: una perfetta, reciproca fusione, così da non staccarvi mai l’uno dall’altra, né di giorno né di notte? Se tale è il vostro desiderio sono disposto a fondervi e saldarvi insieme, a forza di fuoco, nel medesimo individuo, sì da ridurvi a un essere solo, da due che eravate, cosicché, per tutta la durata della vostra esistenza viviate uniti l’uno all’altra e, una volta morti, laggiù nell’Ade, di due siate uno solo, accumunati l’uno all’altra da un’unica sorte. Suvvia, guardate se questo è il vostro desiderio e se, raggiunto ciò, vi potete tenere appagati».
«A questo proposito ben sappiamo che uno non si rifiuterebbe o si mostrerebbe di altro desideroso; ma ciascuno, senza esitazione, penserebbe di aver finalmente udito espresso quello che, certamente, era da gran tempo il suo desiderio: riunirsi e fondersi con l’amato per formare, da due esseri distinti, una natura sola.
Ora il movente di questa aspirazione va ricercato nel fatto che questa era, appunto, la primitiva natura nostra e noi costituivamo una unità ancora integra; proprio la struggente bramosia di questa unità porta il nome di amore».
(Convito – Platone)
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