Verso la fine del secolo XIV s’incontrarono in una taverna alle porte di Magdeburgo due pellegrini.
Uno era un neoplatonico italiano latinizzante; l’altro uno dei moreschi di Spagna. Arrivarono alla Taverna della Rosa e della Croce per due vie differenti.
Posate le bisacce, sederono a tavola – una tavola rettangolare – e ognuno dei due sedè a un estremo di essa.
L’oste portò due orciuoli di vino e due pani, collocò pane e vino innanzi a ciascuno e poi domandò ai due avventori se preferissero minestra al lardo o dei legumi lessi con carne.
Disse il pellegrino italiano:
– Consento e trovo giusto che mi hai portato del pane, ma come e perché mi hai apprestato del vino a tua iniziativa?
– Signore, disse l’oste, ti ho visto dal portamento e dal colore di cristiano che sei d’Italia e deve esserti caro un gocciolo di vino del tuo paese.
– Ma non sono italiano io, disse l’altro, il moro, e pur tu facesti l’identico.
– Ma sei del paese del buon vino e delle belle donne, sei del paese saraceno di Spagna e deve piacerti il succo dell’uva.
– Io bevo acqua, disse l’italiano, il vino è fatto per gli uomini che amano la terra.
– E anch’io non bevo che l’acqua e non mangio che pane, legumi, frutti della terra e olio.
– Anche io, soggiunse l’italiano, sono felice come il Papa se mi darai insieme al pane un po’ di sale e un frutto.
L’oste dinanzi a sì magri viandanti ammutolì, tolse loro il vino e apprestò il frugale companatico. I Pellegrini strinsero amicizia e si riconobbero per due studiosi di filosofi.
Venivano entrambi a Magdeburgo dove, isolato, viveva un famoso rabbino, Jehiel, uno dei più potenti cabalisti del tempo. Il giorno seguente, appena alto il sole, andarono a casa del sacerdote filosofo giudeo e lo trovarono nell’orto a passeggiare.
Il maestro li accolse benignamente e domandò loro se in Italia e tra i Mori di Spagna non avessero per caso distrutta fino alla radice la pianta della vera filosofia, giacché avevano dovuto sfidare gli aspri pericoli di un lunghissimo viaggio per interrogare lui che era uomo modesto, studioso e solitario.
I due pellegrini risposero concordi:
– Né in Italia né tra i Mori il seme della vera filosofia è perduto; essi da quella filosofia nutriti avevano molto ragionato, molto discusso; ma non domandavano, dirigendosi a lui, che una cosa la quale mai avevano trovato chi insegnasse loro: la pratica dei miracoli.
Jehiel li guardò attentamente e poi disse:
– La filosofia si studia, le idee si discutono, i simboli si spiegano, ma per imparare l’arte magica dopo la filosofia della magia bisogna possedere tre cose:
1° La VOLONTA’ senza desiderio;
2° La FORZA di fare senza fermarsi;
3° La PRATICA di non sbagliare.
E il rabbino Jehiel così continuò:
– Chi desidera non può volere. Il desiderio è un appetito dell’illusione che paralizza la volontà, il cui meccanismo diventa perfettissimo nell’assenza di ogni desiderio. L’uomo che desidera una donna ne diventa servo; se, invece, la vuole ne fa una schiava. L’uomo che desidera il denaro è un misero pitocco della fortuna, chi lo vuole lo domina. Il mago che desidera non è un mago e non compie miracoli. Ma dove finisce il desiderio e dove comincia la volontà questo nessuno può definirvi esattamente: la vostra filosofia solo può darvene la ragione.
La seconda cosa, e necessaria, è la forza. Sapete voi perché un seme confitto nell’arena del mare non fruttifica e posato nel solco di un orto dà frutto? Perché l’arena del mare ha molto sale e non produce e la terra dell’orto ha forza di dare la vita senza arrestarsi. Perciò il mago deve possedere la forza di trasformarsi nelle singole forze della natura per produrre come la natura tutti i suoi miracoli e i suoi prodigi: deve avere la forza di alimentare come la terra dell’orto il seme o di distruggerlo come il sale dell’arena del mare. La forza di continuare senza arrestarsi è così nella costanza immutabile della natura ed è così di chi vuol compiere miracoli.
La terza dote è la pratica. Il fanciullo inesperto che coglie le rose si graffia le dita e le vede sanguinare; ma il giardiniere ne fa larga messe senza punzecchiarsi le mani. In arte magica chi sa come si produce e non produce è simile al fabbricante di spade che fa l’arma per la guerra e non va alla guerra.
Per le quali tre virtù, miei cari pitagorici e filosofi, dovete implorare prima di tutto il nome divino di Dio di fortificare il vostro spirito e fare che il vostro corpo si trasformi a volontà dello spirito nel becco di uno sparviero per prendere; nella zampa di un leone per possedere; nella carne di una femmina per illudere i sensi; nella parola del serpente per produrre l’incanto.
Jahiel si avvicinò a un arbusto, ne spezzò un ramoscello e soggiunse:
– Questo piccolo tronco di albero nelle vostre mani è un legno, nella mia è una verga. Voi che avete la filosofia sola non avete la forza, la volontà e la pratica di come fondervi attraverso di essa e fissarvi dov’essa posa: io con la punta di essa traccio un cerchio sulla nuda terra e impedisco ai demoni della terra di penetrarvi.
Voi che tanto cammino avete fatto, siete mai penetrati nel laboratorio di uno scultore? Là troverete il fanciullo che comincia e sbozza la pietra, chi ne lavora il grosso e chi la mena a termine delineandone nettamente i contorni. Ma per arrivare a questo, bisogna cominciare da quella sbozzatura che il bambino fa della pietra, così per tutte le arti e specialmente dell’arte dei prodigi e dei miracoli che rappresenta la pratica della filosofia magica. Felice chi impara a temprare le spade in una fucina di un maestro spadaro e chi ebbe fortuna di rinvenirne uno non ne perda le tracce, ché la magia si impara due volte se la si ruba a un artista.
Giuliano Kremmerz